Se mio padre e mia madre capissero…

Se mio padre e mia madre… non posso più dirlo, perché loro non ci sono più, e se anche oggi avessi voluto dire loro alcune cose, ormai è troppo tardi. In realtà con mia madre, che ha lasciato questo mondo un anno fa, non c’è niente di incompiuto: sapevo che con la sua malattia prima o poi ci avrebbe lasciato presto, e se avevo qualcosa da chiarire o da chiedere, l’ho fatto. Con mio padre non è stata la stessa cosa: lui è morto a 67 anni durante un intervento chirurgico, inaspettatamente, e non ho fatto in tempo a parlare con lui di tante cose. Un vero peccato. Per questo dico che i figli dovrebbero sempre avere la forza e il coraggio di chiedere ai genitori ogni cosa, di comunicare, di rimproverare, pur di non arrivare al giorno in cui non ci sarà più la possibilità di farlo. I nostri traumi infantili andrebbero risolti con loro e non con uno psicologo. Ma loro, coloro che ci hanno regalato la vita, capirebbero i problemi che ci hanno sempre assillato? Noi oggi siamo ciò che loro ci hanno insegnato, siamo in qualche modo il riflesso delle loro personalità, dei loro errori, della loro ignoranza o conoscenza. Ogni mia insicurezza è frutto del loro insegnamento, ogni mio trauma è frutto della loro scarsa capacità di non comunicare, la mia sicurezza è frutto del modo in cui mi hanno educato. Insomma, dico… è quasi sempre merito o colpa dei nostri genitori se oggi siamo come siamo? E saremmo migliori se capissero che alcuni danni creati alla mia personalità fossero da loro ammessi?

Vi regalo l’inizio del mio ultimo romanzo…

Sì, vi faccio questo regalo, postando l’inizio del mio romanzo. Chissà che non vi venga la voglia di comprarlo in libreria o ordinarlo direttamente alla www.sbcedizioni.it una delle peggiori case editrici mai viste. Sì, che l’editore lo legga pure questo post, che mi telefoni, che mi spieghi perché non si è mai degnato di organizzare una presentazione per me, che mi spieghi perché il mio libro (e anche di altri scrittori che hanno pubblicato con luie con i quali sono in contatto) non si trova nelle librerie che l’editore dice di rifornire, che mi spieghi perché dovrei vendere come da contratto 130 copie per ammortizzare le spese di stampa quando lui non ha tenuto fede alle altre clausole del contratto. Mi spieghi perché un editore deve fare l’editore quando non ha né la forza né le capacità per farlo. Mi spieghi perché pubblica i libri se non ci crede. Eppure il mio romanzo, a detta delle critiche e di coloro che l’hanno letto ha un interessante peso letterario. Ai posteri l’ardua sentenza? Scusate, bloggers, se durante la lettura noterete che gli accapo non sono rispettati, ma se l’avessi copiato come dal libro ci sarebbero state interlinee doppie e triple, e avrei usato troppo spazio.

 

La figlia della Notte

 

romanzo di Sergio Consani

 

Nello stesso istante in cui Ida Borsi fu afferrata dalle braccia della morte, gli inquilini che abitavano nell’edificio che si affacciava sul Fosso Reale, lungo gli Scali delle Cantine, udirono un rombo cupo che sembrava partorito dalle viscere della terra; il rombo si propagò negli ampi e tetri sotterranei del palazzo, fino a raggiungere i piani alti per poi correre e dissolversi lungo le tegole del tetto. Tutti, incapaci di attribuire a tale rumore un evento naturale o provocato dagli uomini, avanzavano le ipotesi più fantasiose e inverosimili. «È arrivata la fine del mondo!» diceva qualcuno. «È Dio che ci punisce per i peccati commessi!» gridava qualcun altro. L’evento, di per sé unico e terribile alle orecchie di chi poté udirlo, ebbe la durata di pochi secondi e si ripeté parecchi anni più tardi. Da quel momento la gente, tramandandosi l’episodio di generazione in generazione, ne ha sempre parlato, facendolo arrivare fino ai nostri giorni. Ogni volta c’era chi vi aggiungeva nuove teorie, previsioni di sciagure, illazioni mefistofeliche o sventure causate dalla malasorte, le cui radici avevano origine da quello che ormai tutti chiamavano il boato. Accadde il primo maggio del 1860, nella città di Livorno. Era lo stesso giorno in cui trentacinque livornesi, accompagnati da una folla di curiosi che esaltava la loro partenza con grida di gioia e di raccomandazioni, s’imbarcarono sul piroscafo Etruria per recarsi a Genova; da lì avrebbero raggiunto Quarto per poi imbarcarsi di nuovo su un altro piroscafo, il Lombardo, comandato da Nino Bixio, e aggregarsi agli uomini della Spedizione dei Mille. Ida Borsi morì poco prima delle diciannove. Quando quella mattina Luisa, preoccupata, andò alla porta di Ubaldo e fece per bussare, si accorse che era socchiusa. «Ida…» chiamò a bassa voce. Non ci fu risposta. Chiamò ancora e schiuse lentamente la porta. Entrò con passi incerti, guardando l’ampio salone ben arredato, illuminato dalla luce del sole che a quell’ora entrava prepotentemente, infischiandosene degli ampi tendaggi bianchi di lino, ricamati ad intarsio, che abbellivano le finestre affacciate sul canale. «Ida…» fece di nuovo Luisa, questa volta con voce più decisa. Un uomo apparve come un fantasma sulla porta che conduceva nel corridoio. Un corridoio lungo il quale vi erano due stanze da letto, uno studio e, in fondo, la grande cucina. «Signor Stefanini!» disse con un’aria tra il sorpreso e l’intimorito Luisa. «Mi avete spaventata…» Ubaldo Stefanini aveva i capelli arruffati e gli abiti sgualciti come se avesse dormito vestito da qualche parte in una posizione scomoda, e la sua espressione non era quella di sempre; i suoi occhi, infatti, sembravano spiritati; anzi, a guardare meglio erano iniettati di sangue; la fronte era madida di sudore e le mani, non vi era alcun dubbio, tremavano. «Mi dispiace signora Luisa… non era mia intenzione spaventarvi…» Socchiuse gli occhi, inspirò profondamente e lasciò che l’aria uscisse lentamente, come a raccogliere lucidità. Poi riprese quel tono solito che gli si addiceva: distaccato e autoritario. «Immagino che la porta fosse aperta se avete messo piede qui!» «Sì, proprio così!». Rispose cercando di nascondere un disagio e una soggezione che l’assaliva ogni volta che aveva occasione di rivolgergli la parola. «Cercavo Ida. Eravamo d’accordo che… che le avrei mostrato delle stoffe interessanti per…» «Perdonatemi…» la interruppe con un sorriso che alla donna apparve forzato. «Le mie stoffe, pregiate e raffinate, sono il mio pane giornaliero, e credo che mostrare a Ida un qualsiasi altro prodotto che non provenga dai miei magazzini sia del tutto inutile!» Luisa, alla quale era difficile far abbassare la testa per via di quel carattere sanguigno che aveva ereditato dal padre, continuò a fissarlo negli occhi, disprezzando in silenzio quel suo tono falsamente calmo e quel linguaggio troppo condito di ipocrisia. Per Ubaldo, come per quasi tutti gli uomini di quel tempo, la donna era in dovere di sottostare all’autorità dell’uomo, di mostrargli pudore e non prevaricare nelle questioni di famiglia. Nell’interno di essa poi, la donna era sottomessa al marito, che rimaneva il garante e l’amministratore dell’unione coniugale. Ora, Luisa non era sua moglie, ma era pur sempre una donna, e quello sguardo di sfida non era tollerabile per un uomo che deve farsi rispettare. E lui non era abituato a tale sfrontatezza. «Se volete scusarmi…» disse Stefanini indicando la porta come a invitarla ad uscire. «Mi potreste chiamare Ida solo per un minuto?» chiese senza muoversi. Era un duello a distanza. Entrambi erano rimasti nelle stesse posizioni di poco prima: lei a due passi dalla porta d’ingresso; lui in prossimità del corridoio. Li separava una distanza di qualche metro e lo spazio che intercorreva fra i due dava l’idea di un campo di battaglia, ancora vergine, senza né morti né feriti, pronto ad accogliere i combattenti. «Ida non c’è!» «Mi aveva assicurato che ci saremmo viste!» aggiunse non disposta a cedere. «È andata via almeno un quarto d’ora fa. Aveva delle commissioni urgenti da fare. Adesso, se volete scusarmi.» Le ultime parole le pronunciò non più come un invito, ma molto più vicine ad un comando. E lo fece avanzando verso la porta, là dove Luisa, non convinta che Ida se ne fosse andata, attendeva senza muoversi. «Eppure non l’ho sentita scendere le scale…» incalzò la donna. Ubaldo si fermò, al centro del campo di battaglia, e le lanciò uno sguardo carico di astio. «È probabile che non l’abbiate sentita perché forse eravate indaffarata a preparare il pranzo per la vostra famiglia e tra rumori di ciottoli e forchette e coltelli…» «Può darsi. Mi pare molto strano però che non abbia bussato alla mia porta prima di andarsene. Eravamo d’accordo che ci saremmo viste» ripeté. Le si avvicinò, questa volta con l’intento di non lasciarla controbattere ad ogni sua parola. «A volte è così distratta…» disse andandole incontro e spalancando la porta. «Quando la vedrò non mancherò di rimproverarla per questa sua dimenticanza. Buona giornata signora.» Solo in quel momento Luisa fece caso, sulla sua destra, ad una sedia rovesciata e all’angolo di un tappeto rivoltato. Vide anche una statuetta di bronzo per terra. Raffigurava un cavallo che s’impennava, ma, riverso di lato, aveva perso la sua eleganza. Stefanini notò il suo sguardo posarsi su quelli che potevano apparire i segni di una lotta, e sorrise cercando di sdrammatizzare. «Ci piace giocare ogni tanto, e rincorrerci per tutta la casa è uno dei nostri giochi preferiti…» si schermì con aria maliziosa. Luisa si mosse verso l’uscita, lo guardò un’ultima volta con occhi indagatori, per un solo attimo, ma sufficiente per suscitare nell’uomo una certa agitazione. Le mani ancora gli tremavano e la cosa non era sfuggita alla donna. «Buona giornata anche a lei.» Ubaldo chiuse la porta senza rispondere al saluto e con il dorso della mano si asciugò il sudore sulla fronte.

Immaginazione e realtà

DUE TEMPI

 

 

Quello che vorrei che accadesse, che potrebbe accadere, che potrebbe non accadere, che spero che accada, che temo che accada, che temo che non accada. E poi la realtà.

 

 

Ore 18.00 di un giorno caldissimo d’estate. Stasera esco con M, per una passeggiata al Gianicolo. Mi è sempre piaciuta M, da sempre, da quando la conosco, da diciassette anni. Ci siamo frequentati da amici, abbiamo parlato sempre a lungo, in modo profondo. Poi ci siamo persi per un lungo periodo. Adesso l’ho ritrovata; sono già uscito con lei alcune volte e il filo sembra non si sia mai interrotto. Mi piace il suo sguardo, il suo modo di muoversi, di parlare, la sua pelle, il suo odore. E stasera, lontani entrambi dalle nostre case, dai letti e dalle lenzuola, mi piacerebbe sedermi con lei su una panchina, accarezzarle il viso, guardarla e posare le mie labbra sulle sue. La faccio poggiare sul mio petto, le tocco i capelli, le braccia, le guance. Poi la bacio di nuovo, non le dico niente, la guardo e basta. La faccio alzare, poi mano nella mano mi avvicino al muretto da dove le luci di Roma sono uno spettacolo stupendo, l’abbraccio e la bacio di nuovo. Poi la riporto a casa, la saluto con un sorriso e vado via. Mi sdraio nel mio letto, la sento, la penso.

 

 

Ore 3 del mattino.

Sono tornato a casa, ma non è successo niente di quello che immaginavo. Abbiamo parlato, passeggiato lungo le stradine di Villa Borghese (già, non siamo andati al Gianicolo!), ci siamo presi un caffè. La guardavo mentre parlava, a volte ero distratto e non ascoltavo le sue parole, mi perdevo nel suo sguardo. Se ne sarà accorta? Ogni tanto le sfioravo una spalla perché il momento per toccarla era giusto, magari avevo fatto una battuta, le sorridevo e sfioravo la sua pelle, così, come per caso. Ha la pelle liscia e morbida, un po’ abbronzata, odorosa. Quando la toccavo sentivo che lei non si ritraeva. Forse perché riteneva normale quel tocco o perché le piaceva? Un giorno glielo chiederò. Siamo saliti in macchina, ci siamo fermati a mangiare una fetta di cocomero e la serata è finita. Però sono stato bene. Questa in fondo è la cosa più importante.

Il denaro

Vile. Utile. Maledetto. Necessario. Diabolico. Che corrompe, illude, rovina, cambia le vite, uccide. Denaro macchiato di sangue, sporco, riciclato. Sesso e denaro, amore e denaro, matrimonio e denaro. Cammino distratto in un grande magazzino, un uomo fermo sulla carrozzella guarda una vetrina; sorrido amaramente: quell’uomo sta guardando i prezzi delle scarpe. Le scarpe. Lui che non cammina. Lancio un’occhiata alle scarpe che indossa: sono nere, di pelle, di scarsa qualità, tirate a lucido. Osservo i suoi vestiti: dignitosi, ma poco costosi, dozzinali. Mi fermo, osservo la sua faccia senza che lui possa scorgermi; sogna. Sogna di camminare con quelle scarpe da ginnastica che sono proprio lì di fronte a lui. Ma costano 125 euro: forse un’esagerazione per le sue tasche, è evidente. Sogna di correre, lo sento, sogna di rotolarsi su un prato con quelle scarpe costose made in China. Mi chiedo: se avesse avuto il denaro necessario le avrebbe comprate? Ma la domanda che mi ha fatto allontanare da quella scena irreale è stata: se avesse avuto tanto denaro avrebbe potuto un intervento chirurgico salvare le sue gambe? Il denaro, quello che chiedono i medici per salvare la gente. Quello che se non lo hai ti sbattono la porta in faccia e ti lasciano morire. Ma tanto, caro Berlusconi, caro Agnelli, cari ricchi imprenditori, caro Rockfeller, caro Bill Gates… potete campare anche dieci anni più di me, ma alla fine sotto terra ci venite anche voi. E senza il vile denaro.

Sotto i riflettori…

Ieri pomeriggio è stato presentato il romanzo di Mariagiovanna Luini, “Una storia ai delfini”, alle sede dell’SVS in Via delle Corallaie. Il tutto organizzato dall’eclettica Sandra Mazzinghi, volontaria dell’SVS, scrittrice e impiegata comunale, di cui possiamo trovare anche un suo articolo sul Corriere di Livorno di oggi. Come al solito la gente non era numerosa, ma, considerando quanto la cultura ormai si possa considerare quasi un fardello sostenuto da pochi, ci si può ritenere soddisfatti. Sotto i riflettori c’era Mariagiovanna; una donna semplice, diretta, spontanea, intelligente e soprattutto sensibile. A sostenerla c’era Marialaura Rossiello, giornalista, e Odette Volpi, presidente dell’SVS. La sera ci siamo organizzati per una pizza, a dimostrazione che anche gli incontri culturali possono poi sfociare in piacevoli riunioni mangerecce, con scambi di opinioni, risate e progetti. Poi Gianpaolo, noto blogger che frequenta anche il mio blog, è venuto a Livorno e ci siamo conosciuti. E’ stata una sorpresa piacevole, e inviterei, per la prossima pizzata, anche altri bloggers. Gianpaolo stesso vi dirà se è stato bene in mezzo a noi. C’erano Piergino, sua moglie e un’amica, Claudia e Doody, Sandra e suo figlio Jacopo, Lisa, Stefania e Graziano, Mariagiovanna e Marialaura. Si sono poi accodati Sergio e Mariarosaria, Tanti miei allievi. Ma non solo allievi: ormai sono tutti amici. Non sapete che cosa vi siete persi.

Stasera iniziamo un’altra avventura…

Eccoci arrivati al 28. Stasera iniziamo “il corso 2”. Due giorni fa il Corriere di Livorno ha pubblicato un mio articolo su questo nuovo corso, e oggi il Tirreno ha fatto la stessa cosa (grazie, Marialaura). Si sa, Livorno è una città piccola, e le iniziative culturali non sono poi così tante, e la gente viene malvolentieri la sera, stanca dopo il lavoro, a un corso, che sia di scrittura, di scultura, di pittura o altro genere. Li capisco. Però è anche vero che se qualcuno ha un piccolo sogno da coltivare deve assolutamente cercare di realizzarlo, a costo di qualche piccolo sacrificio. In questa seconda parte del corso ho chiesto agli eventuali new enters di mandarmi via email un qualcosa di scritto, ma per adesso nessuno si è fatto vivo. Già, il timore di fare brutte figure, di non essere all’altezza ci sconvolge sempre. E’ un peccato, perché qui dobbiamo solo dimostrare di avere la voglia di fare qualcosa. Nient’altro. Fatevi sotto, avete ancora qualche ora di tempo. La dimostrazione che siamo tra amici è che quando ci va organizziamo anche pizzate! Niente esami da superare, ragazzi!

Rinascere…

Buona Pasqua a tutti quelli che credono, e Buona Pasqua a tutti quelli che non credono ma che dovrebbero credere almeno nella rinascita. La rinascita dello spirito, della volontà di affrontare cose nuove e difficili, del desiderio di guardare avanti. E se guardandoti indietro vedi errori madornali commessi, non chiudere gli occhi e non far finta di niente: il passato è passato, è vero, ma gli errori vanno affrontati, presi di petto e non gettarli via come se non appartenessero alla nostra vita vissuta. Si diventa più grandi, soffrendo e sbagliando. E a chi soffre con noi, per colpa nostra, non negare mai una mano. Rinascere… riprendere in mano il filo interrotto, far tornare la fiducia in se stessi, non uccidere la nostra anima con i sensi di colpa. Sbagliamo tutti. E d’altronde… chi è senza peccato scagli la prima pietra. Auguri a tutti gli amici bloggers…

Una bella recensione su www.mangialibri.it

L’odore di un’immagine

altSergio Consani
Books & Company 2005

Davide e Lea si conoscono da sempre, ma Davide non lo sa. Frequentavano la stessa scuola, e Lea era innamorata di lui: gli aveva confessato il suo amore su un bigliettino che lui aveva deriso e lasciato sul pavimento, tutto stropicciato. Però. La vita va dove vuole, e Lea ritorna nella vita di Davide con misteriosa prepotenza, e insieme a lei arrivano ricordi e incubi visti attraverso i vetri di una vecchia casa con la porta verde scrostata dal tempo. Davide, voce narrante, è uno scrittore la cui mano viene stretta da Lea, bionda ed enigmatica donna dal sorriso triste e i capelli sempre spettinati: la mano di Lea lo conduce nelle strade vecchie e piene di odori della città, lo spinge a guardare un passato che, per una magia strana e inquietante, si rende visione attraverso la finestra della casa di lei bambina. E con le immagini Davide scopre traumi e tristezze, orrori e silenzi, e dipana poco a poco il filo intricato di due esistenze, l’esistenza di Lea e quella del padre deportato in campo di concentramento perché ebreo e segnato per tutta la vita dall’insensata violenza ricevuta. E intanto scrive, Davide. Un libro che intitola “L’odore di un’immagine”, con la storia di Lorenza, la protagonista, con la quale Lea si identifica, fino a un finale che sembra unire le due donne nella medesima sorte…
Sergio Consani sa scrivere. Questa è la prima, istintiva riflessione quando si chiude il libro la cui lettura appassiona, coinvolge e non si riesce a interrompere se non al prezzo di continui ritorni. La storia è una psicanalisi concretizzata in una relazione d’amore dalle tinte magiche: una finestra buia e vecchia rimanda le immagini della vita di Lea bambina, e con la mano stretta a quella di Sergio Lea ritorna a un passato con il quale deve ormai trovare un armistizio. Un onorevole compromesso. Gli esempi di storie come questa sono molti in letteratura, e chiunque abbia un minimo di conoscenza della filmografia di Hitchcock non può evitare di pensare a Marnie, trascinata sotto la pioggia alla casa della madre e regredita di colpo ai traumi di bambina. La scrittura di Sergio Consani regge la trama, non indugia nel dolore così come evita la pedanteria o la ricerca della facile emozione parlando di lager e deportazioni. Non che nella narrazione manchino i momenti di maggiore pathos: la descrizione della morte di due piccoli gatti brutalizzati con ferocia costringe a chiudere il libro per respirare, e riprendere la lettura solo dopo qualche istante di distacco. I dialoghi sono realistici e con qualche sbavatura lessicale sicuramente voluta che rende concreta la visione dei protagonisti, le descrizioni ambientali sono vivide e accuratissime e i personaggi appaiono progressivamente, con grazia ma anche con estremo realismo: L’odore di un’immagine è un romanzo bello, che vale la pena di leggere e ricordare. [mariagiovanna luini]

Questa recensione è stata scritta da Mariagiovanna Luini, scrittrice. Il suo blog: http://mariagiovanna.typepad.com  sul sito www.mangialibri.it

Quattro anni fa…

Bene, sono le diciotto e trenta, ho riportato mia figlia a casa della madre e sono in auto. Accendo la radio per sostituire il silenzio che è sceso improvvisamente attorno a me e dentro di me. La voce di mia figlia, le sue risate, le battute, i discorsi seri e semiseri sono spariti; la musica rende tutto ancora più triste. È da stamattina che non sono di buonumore. A volte capita di svegliarsi con un giramento di palle inspiegabile. Chissà, forse sono gli accumuli dei giorni passati, contro i quali hai combattuto, hai cercato di porre rimedio e adesso si riversano su di te, in maniera pesante. Guido cercando un pretesto per incazzarmi, cerco una ragione alla quale attribuire il mio disagio, ma non ci riesco. Viviamoci questo momento così com’è. Torno a casa. Entro, mi guardo intorno e mi sento come se fossi a casa di un altro. Mia figlia riempie le giornate, fa casino, è disordinata, ascolta musica mentre studia, mi salta addosso all’improvviso come una scimmia che vuole giocare, telefona alle amiche, mi chiede consigli, le traduco un sacco di cose in inglese, ci sediamo a tavola e mangiamo insieme, poi, alla fine del pranzo o della cena, si siede sulle mie ginocchia e parliamo. Quello di sedersi sulle mie ginocchia è un’abitudine che dura da quando era piccola. Adesso ha quindici anni. Il mio sogno è quello di vederla continuare fino a che le mie ginocchia reggono.  Sembra ci sia il vuoto in questo appartamento neanche troppo bello e dove durante il giorno filtra poca luce attraverso quelle finestre troppo alte e troppo piccole. Vorrei uscire di nuovo, subito. Prendere la macchina e andare via, da qualche parte. Ma dove? Dove posso andare stasera? Potrei chiamare Stefano e chiedergli se gli va di andare a mangiare una pizza insieme. Ma Stefano è sposato, ha una figlia, magari la moglie s’infastidisce e lui, per dire di sì a me, ci litiga. No, lasciamolo stare. Potrei chiamare Alessio. No, no, ha avuto una figlia da pochi mesi e la sua donna forse ha bisogno di lui. Ci sono tante cose da fare quando c’è un bambino piccolo in famiglia. Allora chiamo Pasquale. Stessi problemi. Antonio non mi direbbe di no, sono sicuro, ma stasera non mi va di chiamarlo e trasmettergli questa mia insofferenza. E’ troppo amico. Chiamo Monica. Lei è un’amica senza legami sentimentali, libera di muoversi come le pare e piace. Le telefono. Ha la febbre a trentanove. Mi siedo sul divano, nel silenzio. Forse è meglio che mi rassegni a rimanere qui, a casa mia, senza cercare distrazioni. Potrei uscire da solo, vado a mangiare qualcosa in una trattoria e poi a vedere un bel film al cinema. E al ristorante che faccio? Mi siedo e mentre mangio guardo gli altri che ridono e si divertono in compagnia? È triste vedere qualcuno da solo in un ristorante. Quando mi capita di vederne uno, lo guardo sempre con una curiosità morbosa. Lo studio, cerco di immaginare perché si trovi lì, a quel tavolo, senza amici o senza una donna. Io sono qui con Monica, o forse con Alessio e Pasquale e rido insieme a loro. Ma il mio sguardo va sempre lì, sull’uomo o sulla donna solitaria. Forse è in questa città per lavoro e non ha nessuno con il quale dividere un tavolo; forse vive qui ma ha litigato con la moglie e adesso mastica quei bocconi come se fossero tozzi di pane secco, che non vanno né su né giù; forse è solo, separato o divorziato, ha appena lasciato suo figlio a casa della madre e riempie la serata facendo finta di star bene in mezzo alla gente, e magari non voleva rimanere solo a casa per non sentirsi invadere dalla solitudine. Ha chiamato Mario, Antonio, Carla, Francesca… ma tutti avevano da fare, e allora ha deciso così. Come potrei fare io adesso. Ma non voglio che la gente pensi che sono triste quando mi vede in un ristorante da solo. Preferisco rimanere a casa mia. Va bene, allora mangio qualcosa, mi faccio un piatto di spaghetti al pomodoro e poi vado al cinema. C’è un cinema proprio a due passi da dove abito, così non prendo neanche la macchina. Afferro il giornale e do un’occhiata alla pagina dei cinema. Proiettano una delle solite commedie americane e un film d’azione, americano. Ma dove cazzo sono i film italiani? Ma perché mi devo sempre trovare davanti dei film americani? Non vado al cinema. Forse daranno qualche buon film in televisione. Intanto l’acqua bolle; butto giù un po’ di spaghetti, giro con il cucchiaio di legno e controllo che l’olio nel padellino non si bruci. Ho deciso per aglio, olio e peperoncino. Il vino è in tavola, non manca niente. Oddìo, mancherebbero un sacco di cose, ma va bene così. C’è silenzio in cucina; solo il rumore dell’acqua che bolle e qualche vociare lontano che proviene dall’esterno. Mi siedo e mangio. Intanto penso. Poi mi rendo conto che nei momenti di solitudine, non è tanto il fatto di essere soli, quanto quello di pensare. Se il cervello per qualche ora la smettesse di pensare, forse non ci sentiremmo così soli. Se accendi la radio la musica non ti aiuta a non pensare; forse la televisione ti distrae un po’ di più, ma solo se c’è qualcosa che t’interessa davvero. Siamo schiavi del pensiero, indissolubilmente legati alle parole non dette e che si formano come partorite da una sorgente d’acqua. I pensieri scorrono nel letto del fiume, avanzano senza ostacoli. Immagino una cascata e mi fermo ad ascoltarne il suono. Il suono incessante ed eterno sono i troppi pensieri che s’intrecciano, che si associano, che si scontrano. Come faccio a fermare quella cascata? Sono le dieci e trenta di sera. Hai visto? Bene o male il tempo è passato. Adesso, in seconda serata, posso vedere qualcosa d’interessante sul piccolo schermo amico. Fuori fa freddo, piove, non sarebbe stata comunque una bella serata per uscire. Sento il bip di un sms che è arrivato sul cellulare. È Alessio che mi dice: “Lo so che è tardi, ma che ne dici di una pizzetta alle undici e trenta?” Vaffanculo Alessio! Potevi pensarci un po’ prima? Così mi sarei risparmiato questa botta di solitudine! E’ tardi e fuori fa freddo, piove e sono già sotto le coperte al caldo. Rispondo all’sms. No, sarà per un’altra volta. Bene, non vado da nessuna parte stasera; però è bello sapere che comunque gli amici ci sono e che non ti dimenticano.