Sergio Consani

Pezzi di vita

Qui, su questo post, lascerò tracce del mio modo di essere, e quindi di scrivere. Questo primo pezzo di vita è uno spunto che ho preso un giorno da un amico che per la prima volta andava con una puttana. Mi sono immedesimato, io che con loro non ho mai condiviso il letto.

Era la prima volta che andavo con una puttana. Eppure, all’età di quarantacinque anni si poteva pensare che, almeno da ragazzo, spinto dagli amici, incuriosito dal sesso facile senza strascichi sentimentali, avrei già potuto lasciare una traccia del mio seme – inutile in quel contesto, è chiaro – in quell’abisso di paure, di solitudine e di repressioni. Nessuno teme le puttane: per gli uomini loro sono il giocattolo con il quale si può fare qualsiasi gioco, chiedere di soddisfare i propri desideri nascosti, parlare di tutto e quindi di niente senza aspettare, ad una eventuale domanda, una risposta concreta e accettabile. La donna, in quelle vesti volgari, dal fare ammiccante, dal trucco pesante e lo sguardo lontano e perso chissà dove, è la quintessenza del godimento puro e semplice, veloce e senza rimpianti. Nel conficcare quell’arma per niente segreta nell’apertura che dona la vita e solamente un lampo di piacere, si riesce a cogliere le sfumature della vita passata che ti scorre accanto e ti accarezza la testa, le spalle, giù fino alle cosce e poi alle caviglie e infine ti solletica i piedi. Confuso, neanche fossi drogato, ti lasci prendere dalle immagini di altre donne che hanno condiviso le tue notti, il tuo letto, l’auto, il prato, la sabbia. Chi sono quelle donne? Che parte hanno avuto in questa recita dove non si è mai vista l’ombra di un buon regista e neanche una scenografia degna di essere messa nel sacco dei ricordi? Dicono che poco prima di morire si rivedono in un veloce flashback gli accadimenti più importanti della nostra esistenza: anche con quella puttana mi è successo. Forse perché era la prima volta, forse perché speravo di morire tra le braccia di quella sconosciuta, forse perché Zana m’incantava con quel suo sguardo triste, forse perché ero io stesso a voler vedere ciò che era meglio non rivedere. Zana. Mi disse che si chiamava così, ma pensavo fosse un nome “d’arte”. Invece, verso l’alba, mi mostrò quello che sembrava un permesso di soggiorno e lì c’era scritto il suo nome: Zana Enver, nata in Albania, trentacinque anni. «Ma perché fai questo lavoro?» Non rispose subito alla mia domanda idiota; non so se per prendere tempo e pensare ad una risposta adatta al momento o se davvero fosse stanca di rispondere le solite cose ai soliti uomini curiosi. Ma quanti di essi glielo chiedevano? E perché? Chi poteva essere interessato alle sue esigenze, alle esigenze di una puttana? Loro venivano qui, in questo appartamento squallido per farsi una scopata, pagavano e a malapena, forse, dicevano ciao quando se ne andavano chiudendosi la porta alle spalle. «Che te ne importa a te?» Ecco, aveva risposto con una domanda, con quel suo accento un po’ duro, chinando il capo e dando uno sguardo alle sue unghie che avevano perso parte dello smalto rosso cupo. Non c’era cosa che odiassi di più; vedere una donna con lo smalto intaccato, consumato, rosicchiato. Mi dava un senso di sciatteria e sporcizia. Eppure era così visibile, continuamente sotto gli occhi, non era possibile non accorgersene. Molto meglio avere le unghie nude allora, senza quei vestiti a brandelli, così che potevi contare il numero delle bugie.

 

Pezzi di vitaultima modifica: 2008-03-02T11:05:00+01:00da
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